Nonostante la politica e i media mantengano le loro attenzioni costantemente concentrate sulle città, le vere interessanti novità politiche, economiche, sociali, vanno cercate nei piccoli centri, di cui l’Italia è piena. Ad accorgersene, però, per ora non è la classe dirigente, ma le singole persone, che stanno compiendo già da anni un silenzioso esodo dai grandi centri, come abbiamo avuto modo di constatare durante il nostro viaggio.
E checché se ne dica non sono scelte di fuga, o di isolamento radical chic. In quelle terre, a lungo abbandonate perché non all’altezza delle richieste della grande fabbrica, si giocano i destini delle generazioni future. Tutto questo mentre la politica tiene ostinatamente la barra dritta sui grandi eventi, i grandi trasporti, i grandi palazzi, i treni veloci per facilitare il movimento da una città all’altra e ottimizzare il tempo di ognuno. “Ottimizzare il tempo”. Con questo must siamo stati ingannati fin dalla culla, cioè fin dalla catena di montaggio. Eh, questi tempi moderni cosa hanno fatto! Ma cos’era veramente la città ottant’anni fa? Lo abbiamo chiesto a un testimone d’eccezione.
Pietro Perotti e la Fiat Mirafiori condividono la stessa data di nascita: 1939. Eppure non ci sono dubbi su chi tra i due se la porti meglio!
Mirafiori, 3 milioni di metri quadrati di superficie sottratta alla città, cintata da 10 chilometri di mura punteggiate da 37 cancelli, una vera e propria città nella città -che per decenni ha rappresentato la vita quotidiana, il pane, la rabbia e le speranze di decine e decine di migliaia di persone-, venne inaugurata in gran pompa alla presenza del Mascellone di Predappio in persona! Ora è un perfetto monumento alla new economy: una ghost town, invasa lentamente, inesorabilmente, dalle erbacce e dalla ruggine, mentre la città intorno cerca affannosamente di negare l’evidenza con i pannicelli caldi dei grandi eventi e dei grandi appalti. E del cemento, a oltranza.
Pietro arriva in Fiat all’alba degli anni ‘60 e già non è un purilu, un novellino. Ha imparato a guadagnarsi il pane (e a guardare il padrone negli occhi) nel cotonificio Crespi nella natia Ghemme, ma vuole assaporare anche il salame! Che non è solo l’aspirazione ad un salario più alto, ma l’opportunità di far politica in una città in fermento, che in pochi anni, tra autoctoni e immigrati meridionali, ha raggiunto il milione di abitanti. Di questo milione, i 37 cancelli di Mirafiori ne inghiottono ogni giorno fino a 60mila, e anche là dentro c’è fermento. La tuta blu diventa presto il segno distintivo della lotta della classe operaia, che lentamente prende coscienza di quanto sta accadendo anche in altre parti del mondo. Pietro è solo uno di questi. Perché abbiamo scelto di incontrare proprio lui?
Pietro è stato il primo a comprendere le potenzialità della comunicazione multimediale: la città, là fuori, non ha idea di cosa succeda nei reparti e dentro vige la regola biblica “non sappiano le presse cosa fa la verniciatura!” Pur con pochi mezzi, i suoi video (privi di audio, ai quali provvedeva l’amico Marco Revelli) riportano alla memoria oggi il mondo della fabbrica e di un decennio di lotte e di conquiste, dall’Autunno caldo 1969 fino ai 35 giorni del 1980. Arriva fino a noi l’eco della sua disperata richiesta di documentare il lavoro in fabbrica, di raccogliere le memorie di tanti operai ai cancelli, dagli ex-partigiani ai braccianti che avevano occupato le terre in Meridione. Oggi invece si lotta quotidianamente contro la standardizzazione dell’informazione e delle riflessioni: anni fa mancavano i reporters che riportassero in superficie l’immenso mare di storie di vita, oggi paradossalmente forse ce ne sono troppi e gran parte delle storie si palesano seguendo per lo più un filone intimista, tralasciando il valore collettivo che può avere un’esperienza di vita. Senzachiederepermesso non è così, è un lavoro diverso: abbiamo avuto subito la percezione che non aveva perso per strada il seme dell’utilità sociale.
Ma quanta consapevolezza c’era davvero negli operai Fiat che stavano vivendo il cambiamento del loro ruolo, circondati dal terrorismo rosso e nero e schiacciati dall’imperante finanza? Forse non tutti agivano con cognizione di causa, ma qualcuno, e non uno solo, hanno urlato negli scioperi, sulle strade, alla degenerazione della fabbrica e hanno invocato il cooperativismo come unica soluzione per la salvezza della classe operaia da un mondo finanziario inconsistente, con tutti i mezzi che avevano a disposizione: tamburi di latta, campanacci, bambocci di cartapesta e poi di gommapiuma, con le alzate di mano alle assemblee… Lo “sciopero dei capi” o marcia dei quarantamila del 1980 decretò la sconfitta operaia: oltre 14 mila licenziamenti annunciati dalla Fiat, eppure gli operai non furono in grado di opporsi. Si era concluso il tempo delle proteste? Gli operai avevano paura di essere arrestati come brigatisti? Era già cominciato il processo di esternalizzazione delle risorse della fabbrica? Forse tutte queste cose insieme. Pietro Perotti sostiene che forse i cellulari, o un tweet, avrebbero avuto il loro ruolo fondamentale per chiamare all’appello gli operai in Piazza Castello quella mattina di ottobre. Quanto sarebbe stato utile davvero?
Fatto sta che non c’erano, così come non si sono visti giornalisti all’affollata proiezione al Cinema Massimo: Senzachiederepermesso è un film partigiano, rivendica la sua radice operaia, può piacere o meno, ma ancora una volta i reporter non hanno ritenuto di documentare questo pezzo di memoria.
Gli anni successivi vedono il drastico cambiamento del modello di lavoro. La sconfitta del referendum del 1985 sulla Scala mobile, il pacchetto Treu, la legge 30 impropriamente detta Biagi, tutto concorre a impedire che i lavoratori possano difendere le conquiste fatte in un decennio di lotte. Decennio che comunque aveva visto livelli di produttività e di efficienza mai più raggiunti. Ma per i piani alti non è un problema: le priorità sono diventate altre. Non più la produzione, ma i giochi finanziari. Tanto la “crisi” morde solo da una parte, sempre la stessa.
Un’amara verità, su cui ci piacerebbe riflettere con voi, è che questi tempi moderni, oltre ad alienare l’operaio fino a farlo scomparire, hanno annullato la percezione di classe, il valore solidaristico, di mutuo soccorso tra le persone. In passato una fabbrica in dissesto poteva essere rimessa in funzione dai lavoratori in autogestione. Oggi le cooperative sono imprese a tutti gli effetti, sottoposte ad una tassazione meno gravosa giustificata da uno spirito solidaristico che non c’è più, il socio lavoratore, alleggerito del suo ruolo, è solo lavoratore, e pure sottopagato, incapace di appellarsi a qualsiasi diritto. Ricordate la storia di Federico Altieri?
Sta a noi individuare le nuove strade. Senza chiedere il permesso.