Se l’incontro con Pietro Perotti ci ha dato modo di rinfrescarci la memoria sul modello tradizionale di lavoro nella nostra città, visitando nientemeno che l’elefante Fiat, la recente pubblicazione di Diario di zona di Luigi “Yamunin” Chiarella (ed. Alegre/Quinto Tipo) ci offre l’occasione di dire due parole sul modello del lavoro oggi.
Anche perché in entrambi i casi è di Torino che si parla.
Una Torino che negli anni ’70 assisteva stupefatta alla calata degli operai in tuta e bidoni provenienti da un altro pianeta, e alla fine qualcosa capiva. E ora? Ora, accecata dal crollo di un sistema, si aggira impazzita nella spirale eventi-cemento. Vive di grandi eventi (soprattutto supposti tali) per incapacità di immaginarsi una normalità, una quotidianità, di ammettere il fallimento di un folle sogno e di trovare il coraggio di voltare pagina.
“Dobbiamo farne di mestieri, noi che viviamo della nostra fantasia” cantavano due poeti. E Luigi Yamunin, attore e regista teatrale di lungo corso, in un momento della sua stagione si ritrova costretto a scegliere, con una certa urgenza, un lavoro vero: leggere i contatori dell’acqua in giro per la città. Non per l’acquedotto, per carità, ma per la società appaltata alla bisogna. Società che poi diventano due… ma bando agli spoiler!
Diciamo solo che Yamunin impara che la città è divisa in zone, in ogni zona ci sono contatori da snidare (spesso da scavare letteralmente dai sotterranei, quando si dice la Darkness On The Edge Of Town!) e ogni zona è a portata di bicicletta.
Così a cavalcioni del malandato destriero, investito Cavaliere (precario neh!) delle acque e armato di palmare, divisa ad alta visibilità, scarpe antinfortunistiche, guanti e palanchino, il nostro novello Capitan Salgari parte in pellegrinaggio per la fu Capitale, ubriaca dei festeggiamenti del 150° dell’Unità. (ah già, un altro Grande Evento).
Una metà di #2RR sostiene che quando si suona per strada quello che essenzialmente si fa è godersi lo spettacolo. Col teatro di strada è sempre così. Capitan Luigi si ritrova ad essere spettatore, comparsa, protagonista e regista di uno spettacolo del quotidiano che mescola tragedie quotidiane e odii ancestrali, sconfitte esistenziali e gloriose resistenze, epiche pedalate e contumelie masticate in cosentino stretto.
Uno spettacolo che va salvato, bisogna sovvertire il fallimento del presente: si apre allora il sipario sul blog Satyrikon, e sotto il segno dell’hashtag #DiarioDiZona si inizia a tracciare una mappa mai vista.
Post dopo post sul blog, e ora, tre anni dopo, riordinati e maturati, pagina dopo pagina di un libro di una nuova collana di Oggetti narrativi non identificati curata da Wu Ming 1, proviamo un curioso orgoglio campanilistico nel riconoscere vie, quartieri, isolati, portoni dietro cui si nascondono cantine inenarrabili e cortili abitati da apparizioni losche.
Un mestiere a rischio, quello del nostro capitano: vincere la paura per il proprio prossimo, paura per nulla atavica ma artificialmente alimentata; farsi aprire i più oscuri anditi del condominio; incassare con curiosità zen le più immeritate cafonate; farsi carico di ondate di dolore; oppure, delle volte, scoprire meraviglie nascoste.
Il regista sa che basta fare un passo più in là per cambiare completamente prospettiva; e il diario la immortala in una frase, uno spezzone di dialogo, una citazione, magari una canzone. E, particolare strappacuore, nelle lapidi ai caduti partigiani che spuntano negli angoli più impensati.
Il narratore si fa testimone, certamente non imparziale, ma discreto, dotato di una dote oggigiorno rara, quella dell’ascolto!
La bici, il palmare e il palanchino sono strumenti di lavoro, come le cesoie di Marco e le forbici di Mario ël Barbé, sequestrate e vilipese da un curioso concetto di giustizia. Ma lo è soprattutto la bici, che vive e conquista la città a suo rischio e pericolo.
L’ex-capitale dell’auto sembra non accettare l’evidenza di una bici che lavora!
Gli automobilisti la sfiorano. I Tarchiati la rubano. I boss proprio non la riescono a concepire, ad accettarne le -poche- esigenze. Non sanno che -ironia- nei reparti della Fiat si sfrecciava in bici per fare più presto a portare ordini e pezzi.
Niente da fare, la bici puzza troppo di libertà, di sfacciata sovversione, di Resistenza! Quasi senza accorgersene, scegliendo la bici l’autore compie non solo una scelta di economia e convenienza, ma una scelta in sé militante! Che, tappa dopo tappa, diventa sempre più consapevole. La catena diventa sempre meglio oliata.
Diciamolo: senza #DiarioDiZona forse #2RR non sarebbe mai partito!
Se #2RR nasce come tournée, diventando per strada un qualcosa di più, un po’ indagine sul lavoro, ma anche un po’ fuga, in cui la bici diventa un grimaldello più della Chevy di Bruce Springsteen, nel Diario di zona la bicicletta non scappa dalla città: scandisce le fasi del lavoro quotidiano e soprattutto solca, esplora, sviscera senza pietà la nostra Torino, con l’occhio innocente di chi si sente “straniero in casa sua”, si inabissa nei bassifondi e si concede la salita sul tetto di Superga. E alla parola “Superga” si apre un altro minuscolo filo nella tela della narrazione. Un filo che ha inevitabilmente colore granata.
Chissà se Torino avrà il coraggio di specchiarsi nelle pozzanghere solcate dalle ruote della bici di Luigi.
Ne avrebbe un forte bisogno!